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Anteprima speciale del documentario-evento “Be My Voice” di Nahid Persson il 6 marzo a Udine e Pordenone. Presenti la giornalista e attivista iraniana Masih Alinejad e la regista

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«Non ho mai detto di voler cambiare il mondo: io voglio solo cambiare il mondo intorno a me. Tutti possono farlo…». Con queste parole, tanto semplici quanto appassionate, la celebre giornalista e attivista iraniana Masih Alinejad ama raccontare la propria “rivoluzione gentile”. La propria lotta contro l’apartheid di genere. Una scelta coraggiosissima che l’ha obbligata all’esilio negli Stati Uniti e che, grazie alla regista Nahid Persson, è diventata il cuore di un documentario davvero prezioso: Be My Voice.

Atteso nelle sale italiane dal 7 marzo, sotto il segno della Tucker Film e del Pordenone Docs Fest (l’anno scorso, ricordiamo, Be My Voice si è aggiudicato il premio del pubblico), il titolo-evento di una stagione cinematografica che sta fiorendo sarà presentato domenica 6 marzo, proprio da Masih Alinejad e Nahid Persson, a Cinemazero di Pordenone (ore 16.00) e al Visionario di Udine (al termine della proiezione delle 18.00).

Essere la voce di chi alla propria voce ha dovuto rinunciare. Essere il punto di connessione tra chi non può parlare e chi, invece, è libero di ascoltare. Questa è l’urgenza narrativa di Be My Voice: la storia di una donna, Masih Alinejad, diventata appunto la voce di tutte le donne iraniane che si ribellano all’hijab. Una guerriera lontana dalla sua terra, ma non dall’anima del suo Paese, che lotta da anni contro ogni limitazione dei diritti civili. Masih rischia la vita, la Repubblica islamica le ha inchiodato una taglia addosso, ma nemmeno una quotidianità così dolorosa e precaria basta a zittirla: più di 6 milioni di persone la seguono su Instagram!

Be My Voice ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International Italia e il suo portavoce, Riccardo Noury, ha motivato così la decisione: «Questo importante documentario è un riconoscimento a chi, dall’esilio, non rinuncia ad agire in favore dei diritti umani ma soprattutto del coraggio di chi, dall’interno dell’Iran, come Yasaman Aryani e le altre compagne di lotta, mette a rischio il proprio futuro per ribadire un principio fondamentale: le leggi che obbligano a indossare o vietano di indossare capi d’abbigliamento sono contrarie ai diritti».